Author Archives: Avv. Enrico Natale Colombo
Rinuncia all’eredità e obblighi tributari
Il contribuente che abbia rinunciato all’eredità non può essere in alcun modo considerato titolare della soggettività passiva dei debiti fiscali del de cuis. L’art. 521 comma del codice civile prevede che chi rinuncia all’eredità è come se non vi fosse mai stato chiamato; quindi se viene notificato un avviso di accertamento ad un soggetto che ha rinunciato all’eredità, può essere eccepito il difetto di legittimazione passiva rispetto alla pretesa fiscale. La rinuncia all’eredità ha effetto immediato e rende nulla la notifica al “chiamato” dell’avviso di accertamento dei redditi del de cuius ; resta però salva la potestà di accertamento dell’Ufficio nel caso in cui ,nel termine di prescrizione decennale, i chiamati all’eredità compiano atti implicanti l’accettazione.
Nella pratica quotidiana , nonostante l’orientamento ormai granitico della Cassazione sul tema, gli Uffici continuano ad emettere avvisi di accertamento nei confronti dei contribuenti che hanno già rinunciato all’eredità sulla base dell’assunto secondo il quale la rinuncia all’eredità non sarebbe atto irrevocabile e definitivo.
Secondo la tesi dell’Ufficio il contribuente deve rimanere in balia dell’Amministrazione finanziaria per dieci anni e cioè sino allo scadere del termine in questione previsto per la revoca della rinuncia!
Da ultimo è bene comunque prendere in considerazione una situazione diversa che porta a conclusioni opposte a quelle sopra descritte; il caso è quello del chiamato all’eredità nel possesso dei beni ereditari che non ha compiuto l’inventario entro tre mesi dal giorno del ricevimento della notizia del decesso del de cuius ; in questo caso il chiamato all’eredità non può rinunciare all’eredità e la rinuncia all’eredità che sia fatta dopo tre mesi dall’apertura della successione ,senza che sia stato computo alcun inventario, è priva di qualsivoglia effetto; il chiamato all’eredità quindi diventa a tutti gli effetti erede del de cuius ( cfr. Cass. Sez. V n. 36080/2021).
I RAPPORTI TRA PROCESSO PENALE E PROCESSO TRIBUTARIO
Fino al 1982 i rapporti tra processo penale e procedimento tributario erano disciplinati dall’art. 21 comma 4 della Legge n. 4/1929 che – in un quadro normativo caratterizzato dalla configurazione dei reati tributari come fattispecie di danno- subordinava l’esercizio dell’azione penale alla definitività dell’accertamento tributario e vincolava il giudice penale all’esito di tale accertamento. Con il decreto legge n. 516/1982 ( la cd . legge “manette agli evasori”) l’assetto normativo conobbe un radicale mutamento che – in un quadro un cui la tutela penale era anticipata a condotte propedeutiche all’evasione fiscale- escludeva la sospendibilità del processo tributario per la pendenza di quello penale, ma attribuiva alla sentenza penale irrevocabilità di autorità di cosa giudicata nel diritto tributario; assetto, questo che fu ritenuto conforme a Costituzione dalla sentenza n. 349 del 1987 della Corte Costituzionale.
Con il d.lgs. n. 74/2000 si è ripreso una tecnica di costruzione della fattispecie incriminatrice incentrata sull’evasione e ciò si è accompagnato ad una sostanziale conferma dell’assetto dei rapporti tra processo penale e processo tributario. L’art. 20 del d. lgs n, 74 del 2000 esclude la sospendibilità del processo tributario per la pendenza del procedimento amministrativo relativo ai medesimi fatti, mentre l’autonomia del processo penale rispetto a quello tributario discende dagli artt. 3 e 479 c.p.p.
In questo contesto normativo , la giurisprudenza di legittimità ha precisato che le sentenze pronunciate dal giudice tributario , se non definitive, non hanno efficacia vincolante nel giudizio penale, laddove, divenute irrevocabili, sono acquisibili agli atti del dibattimento e valutabili ai fini della decisone a norma dell’art. 238 -bis c.p.p. ; anche le sentenze tributarie definitive dunque non vincolano il giudice penale in quanto l’art. 238-bis c.p.p. consente l’acquisizione in dibattimento delle sentenze divenute irrevocabili, disponendo che esse siano valutate a norma dell’art, 187 e 192 comma 3 c.p.p. ai fini della prova del fatto in esse accertato, sicché spetta esclusivamente al giudice penale il compito di determinare l’ammontare dell’imposta evasa in base ad una verifica che può venire a sovrapporsi e anche entrare in contraddizione con quella eventualmente effettuata dal giudice tributario, non essendo configurabile alcuna pregiudiziale tributaria
Strage di Viareggio: imputati prescritti ma responsabili
Nel mese di settembre la IV Sezione Penale della Cassazione ha depositato la motivazione della sentenza del processo sulla strage di Viareggio che costò la vita a 32 persone nel giugno 2009. Nel gennaio u.s. è stato depositato il dispositivo della sentenza che ha escluso l’aggravante relativa alla violazione delle norme sulla sicurezza sul lavoro e ciò ha comportato che il reato di omicidio colposo contestato agli imputati è stato dichiarato prescritto. Più precisamente la Corte ha affermato che, ai fini della integrazione della circostanza aggravante del “fatto commesso con violazione della norma per la prevenzione degli infortuni sul lavoro” di cui all’art. 589 secondo comma e 590 terzo comma c.p. ,occorre la violazione di una regola cautelare volta ad eliminare o ridurre lo specifico rischio derivante dalla svolgimento di attività lavorativa, di morte o lesione ai danni dei lavoratori o di terzi esposti alla medesima situazione di rischio e pertanto assimilabili ai lavoratori che l’evento sia una concretizzazione di tale rischio che la regola cautelare violata era volta ad eliminare , non essendo all’uopo sufficiente che l’evento si verifichi in occasione dello svolgimento dell’attività lavorativa. (In applicazione di tale principio la Corte ha escluso la configurabilità della circostanza aggravante in questione ai reati di omicidio colposo ascritti, quali datori di lavoro, ad esponenti di Trenitalia s.p.a. e di Ferrovie dello Stato s.p.a. per le morti di soggetti estranei all’organizzazione d’impresa, causate dall’incendio derivato dal deragliamento e successivo ribaltamento di terni merci trasportante GPL , durante l’attraversamento della stazione di Viareggio, determinato dal cedimento di un assile dovuto al suo stato di corrosione, ritenendo le vittime non esposte al rischio “lavorativo” bensì a quello attinente alla sicurezza della circolazione ferroviaria. (cfr sito della Corte di Cassazione Cass. Pen . sez. IV n. 32899/20). In definitiva la Corte è pervenuta alla conclusione che una circostanza che rendeva il fatto più grave non c’era.
Tenuto conto della risonanza e del clamore che tale decisione avrebbe potuto provocare (ed stato poi così nella realtà dei fatti) la Cassazione ha tenuto a precisare che gli imputati sono stati prescritti ma comunque ritenuti colpevoli. Di seguito il comunicato stampa in questione : << La decisione assunta dalla Corte ha confermato i primo luogo l’esistenza del reato di omicidio colposo plurimo. Tale reato, con l’eccezione dell’imputato che aveva rinunciato alla prescrizione, è stato dichiarato prescritto in quanto esclusa la circostanza aggravante della violazione delle norme di prevenzione sui luoghi di lavoro. A questa decisione ha fatto seguito la conferma dei risarcimenti in favore di molte parti civili e la revoca degli stesso in favore di alcune altre. La decisione ha confermato per numerosi imputati la responsabilità per il reato di disastro ambientale ferroviario colposo, così confermando la condanna inflitta dalla Corte d’appello di Firenze che è stata dichiarata definitiva. Per altri imputati ha annullato la sentenza in relazione ad alcuni profili di colpa ed ha rinviato per un nuovo giudizio alla Corte d’appello>>. In definitiva, in altre parole si può affermare che nel caso in questione la prescrizione ha “coperto” la condanna nel senso che gli imputati sono andati esenti da pena ma non da responsabilità.
“Patteggiamento” e reati tributari: possibilità e preclusioni.
L’art. 13 bis comma 2 del D.lgs n. 74/2000 prevede che il c.d. patteggiamento (l’istituto dell’applicazione della pena su richiesta ex art. 444 c.p.p.) per i reati tributari può essere chiesto solo quando ricorra la circostanza di cui al comma 1 nonchè il ravvedimento operoso, fatte salve le ipotesi di cui all’art. 13 comma 1 e 2. A sua volta il comma 1 dell’art. 13 bis, richiamato espressamente dal comma 2, prevede che, fuori dai casi di punibilità, le pene per i delitti di cui al d.lgs n. 74/2000 sono diminuite sino alla metà e non si applicano le pene accessorie indicate nell’art. 12 , se, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, i debiti tributari- comprese sanzioni amministrative e interessi- sono stati estinti mediante integrale pagamento degli importi dovuti, anche a seguito delle speciali procedure conciliative e di adesione all’accertamento previste dalla norme tributarie.
Ciò detto , in forza del combinato disposto dei commi 1 e 2 dell’art. 13 bis, la condizione per accedere al patteggiamento, per i reati tributari previsti dal d.lgs n. 74 del 2000 è costituito dal preventivo ed integrale pagamento del debito , delle sanzioni e degli interessi nonchè dal ravvedimento operoso.
Sotto il profilo operativo, si segnala che il comma 3 dell’art. 13 d.lgs cit. prevede che, qualora prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, il debito tributario sia in fase di estinzione mediante rateizzazione, anche ai fini dell’applicabilità dell’art. 13 bis , è dato termine di tre mesi per il pagamento del debito residuo. In tal caso la prescrizione è sospesa e il Giudice ha facoltà di prorogare tale termine una sola volta pdf non oltre tre mesi qualora lo ritenga necessario, ferma restando la sospensione della prescrizione .
Tornando alla regola generale di cui sopra (necessità del pagamento integrale del debito per accedere al patteggiamento), detta regola subisce tuttavia alcune eccezioni. L’art. 13 bis fa salve le ipotesi di cui all’art. 13 comma 1 e 2. Si segnala infatti che ai sensi dell’art. 13 del d.lgs n. 74/2000, i reati ex art. 10 bis,10ter e 10 quater comma 1 del predetto decreto non sono punibili se, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, i debiti tributari (comprese sanzioni amministrative e interessi) sono stati estinti . Il comma 2 dell’art. 13 dispone poi che i reati ex art. 4 e 5 non sono punibili se i debiti tributari (comprese sanzioni amministrative e interesse) sono stati estinti mediante integrale pagamento degli importi dovuti, a seguito del ravvedimento operoso o della presentazione della dichiarazione omessa entro il termine di presentazione della dichiarazione relativa al periodo di imposta successivo, semprechè il ravvedimento o la presentazione siano intervenuti prima che l’autore del reato abbai avuto formale conoscenza di accessi, ispezioni, verifiche o dell’inizio di qualunque attività di accertamento amministrativo o di procedimenti penali.
“Prima casa”: si alla confisca in caso di reati tributari
L’art. 76 del D.P.R. n. 602/1973 rubricato “Espropriazione immobiliare” dispone alla lett. a) che “l’agente della riscossione non da’ corso all’espropriazione se l’unico immobile di proprietà del debitore, con esclusione delle abitazioni di lusso aventi le caratteristiche individuate dal D.M. 2/08/1969, è adibito ad uso abitativo e lo stesso vi risiede anagraficamente”. Come è noto, Il D.L. n. 69/2013 conv. dalla L. n.98/2013 è intervenuto in materia prevedendo il divieto di pignoramento della c.d. prima casa da parte dell’agente della Riscossione in presenza di debiti tributari. In sintesi, quindi l’ente non può pignorare l’immobile del contribuente a condizione che questo sia: 1)l’unico immobile di proprietà del contribuente 2)non appartenga alla categoria dei beni di lusso 3)il luogo dove il il contribuente è residente. Detto per inciso resta ovviamente la possibilità per il fisco di procedere all’iscrizione di ipoteca sul bene immobile in questione per crediti superiore ad euro 20.000.
Che cosa succede invece se il contribuente viene condannato per reati tributari ? Il “principio dell’impignorabilità dell’immobile costituente prima casa del contribuente,” è ancora valido oppure la prima casa può essere sottoposta dapprima a sequestro preventivo e successivamente alla confisca?
La sentenza n. 45707/2019 della Suprema Corte sez. III è intervenuta sulla questione pervenendo alla conclusione che la confisca non può trovare alcun ostacolo nella previsione dell’art. 76 cit. e che le limitazioni imposte dal D.L. 69/2013 riguardano il solo agente della riscossione e sono limitate a specifiche ipotesi e condizioni ed infine, sottolinea la Corte, le limitazioni in questione non svolgono alcun effetto sulla misura cautelare reale imposta nel processo penale e ciò in considerazione del fatto che la misura cautelare ha una finalità sanzionatoria.
Il caso. Due coniugi , indagati per il reato di utilizzazione di fatture false (art. 2 D.lgs 74/200) nonché di sottrazione fraudolenta delle imposte (art.11 D.lgs cit) proponevano ricorso per cassazione avverso l’ordinanza del GIP del Tribunale di rigetto della richiesta di dissequestro dell’immobile di residenza degli imputati, sequestrato ai sensi dell’art.321 e 322 ter c.p.p. La difesa degli imputati sosteneva che l’alienazione di un bene immobile avente le caratteristiche delineate dall’art.76 cit. ( cd prima casa) non potesse costituire violazione dell’art. 11 D. lgs 74/2000 e ciò in ragione del fatto che si trattava di un bene non sottoponibile ad azione esecutiva. La difesa degli imputati sosteneva altresì che l’immobile, acquistato prima dei fatti contestati, non potesse costituire il prezzo o il profitto del reato di cui all’art. 2 cit. e quindi non sarebbe confiscabile per equivalente.
Gli argomenti in questione non hanno trovato accoglimento; i giudici della Suprema Corte hanno infatti disatteso i rilievi difensivi, affermando che il sequestro preventivo – finalizzato alla confisca per equivalente del profitto corrispondente all’imposta evasa – può essere applicato anche ai beni acquistati in epoca antecedente all’entrata in vigore dell’art. 1 comma 43 della L.244 del 2007 (legge che ha esteso tale misura ai reati tributari), in quanto il principio di irretroattività attiene solo al momento di commissione della condotta , e non anche al tempo di acquisizione dei beni oggetto del provvedimento (cfr Cass. Pen sez. 5 del 28/05/2014).
Tirando le fila del discorso, l’art. 76 del D.P.R. 602/1973 non fissa un principio generale di impignorabilità perché si riferisce solo alle espropriazioni da parte del fisco per i debiti tributari; a ciò si aggiunga che la norma in questione non trova applicazione nella confisca penale-sia essa diretta o per equivalente- perché l’oggetto della confisca è il profitto del reato e non il debito verso il fisco.
Controlli automatici: necessità della comunicazione preventiva
L’invio del cd avviso bonario (comunicazione di irregolarità) a seguito di controlli automatici sulle liquidazioni delle imposte (art.36 bis D.P.R. 600/1973 e 54-bis D.P.R. 633/1972) non è necessario in caso di omissione o carenza di versamenti, non sussistendo in capo all’amministrazione finanziaria un obbligo generalizzato di comunicare gli esiti dei controlli automatici, se non in caso di determinazione di un risultato diverso rispetto a quello indicato in dichiarazione. In altre parole, la notifica dell’avviso bonario è indispensabile ove risultino incertezze su aspetti rilevanti della dichiarazione presentata dal contribuente mentre non lo è in presenza di omessi o ritardati versamenti di imposte già dichiarate dal contribuente ( cfr Cass. Ord. n. 12997/2011). Diversa ancora è la situazione prevista dall’art. 36 ter D.P.R. n. 600/1973 rispetto alla liquidazione di cui all’art. 36 bis del medesimo decreto; al più incisivo tipo di controllo previsto dall’art. 36 ter (cd controllo formale delle dichiarazioni) il legislatore ha fatto conseguire una fase procedimentale necessaria di garanzia per il contribuente. L’art. 36 ter comma 4 prevede infatti l’obbligo per l’A.F. di comunicare i motivi della rettifica operata in un’apposita comunicazione, che assolve da un lato alla funzione di portare a conoscenza del contribuente le ragioni poste alla base dei recuperi d’imposta operati dall’Ufficio procedente, dall’altro di consentire al contribuente la segnalazione di dati ed elementi non considerati o valutati erroneamente con la conseguenza che il mancato invio della suddetta comunicazione incide sulla legittimità dell’iscrizione a ruolo e della cartella di pagamento successivamente notificata al contribuente ( cfr Cass. n. 15311/2014).
Resta ancora controversa la questione se sia impugnabile o meno la comunicazione di irregolarità ex art. 36 DPR 600/1973 ; per una parte della giurisprudenza occorre attendere infatti la notifica della cartella in quanto la comunicazione dell’esito del controllo non è atto impugnabile ed è pertanto esclusa la possibilità di adire il giudice tributario e quindi il diritto di difesa potrà essere esercitato impugnando la relativa cartella di pagamento. Per un diverso orientamento giurisprudenziale, secondo il quale il principio di tassatività degli atti impugnabile ha subito un evidente ridimensionamento, l’elenco degli atti impugnabili contenuti nell’art. 19 D.lgs 546/1992 non ha natura tassativa , ma in ragione dei principi costituzionali di tutela del contribuente e buon andamento della P.A. ogni atto adottato dall’ente impositore che porti a conoscenza del contribuente una specifica pretesa tributaria, con esplicitazione delle concrete ragioni fattuali e giuridiche, è impugnabile avanti al giudice tributario senza necessità che si manifesti in forma autoritativa , sicchè è immediatamente impugnabile anche la comunicazione emessa a norma dell’art. 36 ter comma 4 D.P.R. 600/1973. In tal senso si espressa la CTP di Milano Sez. IX, sentenza n.2931/16, secondo cui cui le comunicazioni di irregolarità costituiscono “espressione di una compiuta e definita pretesa tributaria” e conseguentemente sono atti impugnabili e ciò a prescindere dal fatto che le stesse non rientrino nell’elenco tassativo degli atti impugnabili richiamati dall’art. 19 cit.
ASSOCIAZIONE SPORTIVA – SPONSORIZZAZIONE E PUBBLICITA’ – DETRAIBILITA’ DELL’I.V.A.
Si richiama un’interessante massima della Comm. Trib. Reg. Liguria Coll.2 del 6/5/2019 n. 530 in tema di sponsorizzazione e pubblicità e ciò ai fini della detraibilità dell’I.V.A. da parte delle associazioni sportive.
In conformità alla giurisprudenza consolidata della Suprema Corte, la sponsorizzazione, pur potendo essere ricondotta al concetto ampio di pubblicità, nondimeno, come specifica forma contrattuale creata dall’autonomia privata, se ne distingue.
In relazione, per esempio, ad un evento sportivo si ha mera pubblicità se l’attività promozionale è, rispetto all’evento stesso, in rapporto di semplice occasionalità (è il caso di cartelli collocati ai margini di un campo sportivo rispetto ai quali qualsiasi fatto agonistico è occasione per rendere operativo il messaggio propagandistico), mentre si ha sponsorizzazione se tra la promozione di un nome o di un marchio e l’avvenimento agonistico viene istituito uno specifico abbinamento.
Intesa in questo senso la sponsorizzazione è in relazione non di mera occasionalità ma di “connessione” con lo spettacolo. Pertanto nel caso in cui sia riscontrabile una continuità nel tempo della prestazione dovrà essere esclusa la “semplice occasionalità”, con la conseguenza che sarà configurabile una sponsorizzazione e non una pubblicità, con le relative limitazioni ai fini della detraibilità dell’I.V.A.
Brevi considerazioni in tema di sponsorizzazione ex art. 109 D.P.R. 917/86
Le spese di rappresentanza costituiscono somme corrisposte a titolo gratuito oppure con mere finalità promozionali, che consistono nella divulgazione sul mercato dell’attività svolta, dei beni e dei servizi prodotti a beneficio sia di attuali clienti che di di clienti potenziali, o di pubbliche relazioni, cioè volte a diffondere od a consolidare l’immagine dell’impresa ed accrescerne l’apprezzamento presso il pubblico. L’elemento discretivo rispetto alle spese di pubblicità è la gratuità, ovvero la mancanza di un corrispettivo in capo alla controparte e di un correlato obbligo di dare o fare. In assenza di gratuità non può pertanto esserci spesa di rappresentanza.
Sotto altro profilo, una spesa di rappresentanza deve inoltre risultare ragionevole, cioè idonea a generare ricavi adeguati rispetto all’obbiettivo atteso in termini di ritorno economico oppure, in alternativa, deve essere coerente con le pratiche commerciali del settore.
Per quanto riguarda invece i contratti di sponsorizzazione, essi prevedono l’utilizzazione ai fini promozionali dell’attività, del nome o dell’immagine del soggetto sponsorizzato dietro un corrispettivo in denaro. Il criterio determinante a distinguere spese di sponsorizzazione e spese di rappresentanza è l’aspettativa di ritorno commerciale, per cui le prime sono tese ad ottenere un incremento più o meno immediato delle vendite di prodotti o servizi mentre le seconde mirano ad un potenziamento del prestigio e dell’immagine dell’impresa, senza l’aspettativa di un ritorno commerciale diretto.
Si evidenzia altresì come le spese di sponsorizzazione siano sempre deducibili dal reddito d’impresa, anche in assenza di risultati tangibili in tema di incremento del fatturato; di conseguenza conformemente alla giurisprudenza della Suprema Corte, è illegittimo giudicare ex post, da parte dell’Ufficio, l’effetto della sponsorizzazione e concludere che, ove l’aumento delle vendite non sia sensibile, allora il costo sia antieconomico e quindi non deducibile, essendo la valutazione circa la congruità del costo riservata all’autonomo giudizio dell’imprenditore. Per ritenere un costo non congruo o non inerente non ci si può limitare ad affermare che esso appaia difforme rispetto alla tendenza di mercato ma occorre accertare che esso sia estraneo all’attività di impresa. In ogni caso i requisiti di determinabilità e di certezza devono essere sempre soddisfatti dall’imprenditore; ad esempio la standardizzazione del contratto, la mancata indicazione delle modalità di determinazione del corrispettivo, la genericità delle fatture ed insomma la carenza di documentazione possono portare al disconoscimento dei costi afferenti una sponsorizzazione.
LA CONTESTAZIONE IN CAPO AL CONTRIBUENTE DELL’UTILIZZAZIONE DI FATTURE FALSE
Sussiste un obbligo di diligenza sostanziale nella scelta del fornitore e di attenzione ai requisiti del soggetto cedente (effettiva esistenza, efficiente struttura operativa, capacità di fornire autonomamente i beni acquistati)basato su elementi obiettivi che non possono sfuggire ad un contraente e ad un imprenditore mediamente accorto (assenza di clientela, mancanza di indici di capacità commerciale, mancanza di pubblicità o giro d’affari etc.).
La buona fede comporta la convinzione di un soggetto di agire in maniera corretta, cioè senza malizia e nel sostanziale rispetto delle regole e di non ledere nessuno: va da se’ che il contribuente non può limitarsi alla sola esibizione dei mezzi di pagamento o dei documenti contabili ,in quanto riscontri regolarmente posti in essere da coloro che intendono perpetrare una frode, proprio per non destare particolari sospetti (cfr CTR Lombardia sez. 14 n. 1554/18).
Ai fini della valutazione della buona fede secondo la Corte di Cassazione e la Corte di Giustizia europea occorre esibire i documenti contabili, dimostrare che i predetti documenti provengono da un soggetto realmente esistente, provare l’esistenza della sede sociale, di locali adibiti all’impresa, la presenza di titolari e/o dipendenti presso l’impresa, dimostrare che l’acquirente non ha ottenuto alcun vantaggio o benefico economico dall’eventuale frode cui ha partecipato il venditore (beni a prezzi inferiori, ristorno di pagamenti fatti per contanti etc.) ed attestare l’utilizzo di modalità di pagamento tracciabili (bonifici, assegni, etc).
In definitiva di fronte ad un accertamento dell’ Agenzia delle Entrate volto a contestare la falsa fatturazione per operazioni inesistenti in modo da recuperare costi indeducibili ed IVA indetraibile (oltre le sanzioni) è l’Amministrazione finanziaria a dover provare l’asserita inesistenza, considerando che i mezzi istruttori di cui si serve normalmente il contribuente per vincere la pretesa erariale, le fatture appunto, non possono essere invocate a sua favore in quanto affette da falsità ideologica. In seguito all’assolvimento da parte dell’Ufficio del predetto onere probatorio, quest’ultimo si sposta in capo al contribuente: nel caso di operazioni asseritamente inesistenti sotto il profilo oggettivo ,il contribuente è chiamato a dimostrare l’effettività delle transazioni tramite qualsiasi elemento idoneo ad attestare l’esistenza delle merci, la relativa movimentazione ed i correlati flussi di pagamento. In ipotesi di contestazione di fatture false per operazioni soggettivamente inesistenti, il contribuente dovrà dare la prova che la transazione si è concretamente svolta tra i soggetti indicati in fattura, o in alternativa, che non sapeva nè avrebbe potuto sapere ,neppure utilizzando la buona diligenza, della frode posta in essere dai propri fornitori o dagli operatori rintracciabili a monte della filiera (cfr Il Sole 24 ore 15/06/2018 avv. G.Marzo-I. Barbieri).
Rapporti tra accertamento tributario e giudicato penale
Sono ben distinte le regole tipiche del sistema tributario da quello penale, stante il rapporto di autonomia tra giudizio penale e quello tributario; nessuna “automatica” autorità di cosa giudicata può attribuirsi nel giudizio tributario alla sentenza penale emessa in materia di reati tributari, ancorchè i fatti accertati siano gli stessi per i quali l’amministrazione finanziaria ha promosso l’accertamento nei confronti del contribuente.
Ai nostri fini rileva il combinato disposto dell’art. 654 c.p.p. e dell’art. 20 D.lgs 74/2000 e ciò con riferimento alle differenze dei regimi istruttori in ambito penale e tributario. Il processo tributario è fondamentalmente e quasi esclusivamente un processo documentale in quanto l’art. 7 del D.lgs 546/1992 vieta il giuramento e la prova testimoniale, La semplice lettura delle norme citate ci consentono di pervenire alla conclusione incontestabile che il giudicato penale non può mai fare stato nel giudizio tributario.
Resta comunque il fatto che una sentenza ex art. 444 c.p.p. ( cd patteggiamento) nella prassi quotidiana delle Commissioni tributarie viene presa in considerazione come presunzione semplice in senso sfavorevole al contribuente.
Per converso è da escludere l’incidenza del giudicato tributario nel parallelo processo penale sia perchè diversi sono gli strumenti probatori e di difesa sia perché il principio del “libero convincimento” del giudice penale non si concilia con la presenza di giudicati vincolanti. Il recepimento, da parte del giudice penale, dell’accertamento sul fatto emergente da una sentenza irrevocabile pronunciata in esito al processo tributario (caratterizzato da limitazioni alla prova) deve ritenersi consentito ai sensi dell’art. 238 c.p.p.,ma deve accompagnarsi (stante il richiamo agli artt. 187 e 192 c.p.p. contenuto in quella norma) ad una verifica delle compatibilità degli elementi su cui si fonda con le risultanze del processo penale.