Category Archives: Accertamento tributario
Rinuncia all’eredità e obblighi tributari
Il contribuente che abbia rinunciato all’eredità non può essere in alcun modo considerato titolare della soggettività passiva dei debiti fiscali del de cuis. L’art. 521 comma del codice civile prevede che chi rinuncia all’eredità è come se non vi fosse mai stato chiamato; quindi se viene notificato un avviso di accertamento ad un soggetto che ha rinunciato all’eredità, può essere eccepito il difetto di legittimazione passiva rispetto alla pretesa fiscale. La rinuncia all’eredità ha effetto immediato e rende nulla la notifica al “chiamato” dell’avviso di accertamento dei redditi del de cuius ; resta però salva la potestà di accertamento dell’Ufficio nel caso in cui ,nel termine di prescrizione decennale, i chiamati all’eredità compiano atti implicanti l’accettazione.
Nella pratica quotidiana , nonostante l’orientamento ormai granitico della Cassazione sul tema, gli Uffici continuano ad emettere avvisi di accertamento nei confronti dei contribuenti che hanno già rinunciato all’eredità sulla base dell’assunto secondo il quale la rinuncia all’eredità non sarebbe atto irrevocabile e definitivo.
Secondo la tesi dell’Ufficio il contribuente deve rimanere in balia dell’Amministrazione finanziaria per dieci anni e cioè sino allo scadere del termine in questione previsto per la revoca della rinuncia!
Da ultimo è bene comunque prendere in considerazione una situazione diversa che porta a conclusioni opposte a quelle sopra descritte; il caso è quello del chiamato all’eredità nel possesso dei beni ereditari che non ha compiuto l’inventario entro tre mesi dal giorno del ricevimento della notizia del decesso del de cuius ; in questo caso il chiamato all’eredità non può rinunciare all’eredità e la rinuncia all’eredità che sia fatta dopo tre mesi dall’apertura della successione ,senza che sia stato computo alcun inventario, è priva di qualsivoglia effetto; il chiamato all’eredità quindi diventa a tutti gli effetti erede del de cuius ( cfr. Cass. Sez. V n. 36080/2021).
Controlli automatici: necessità della comunicazione preventiva
L’invio del cd avviso bonario (comunicazione di irregolarità) a seguito di controlli automatici sulle liquidazioni delle imposte (art.36 bis D.P.R. 600/1973 e 54-bis D.P.R. 633/1972) non è necessario in caso di omissione o carenza di versamenti, non sussistendo in capo all’amministrazione finanziaria un obbligo generalizzato di comunicare gli esiti dei controlli automatici, se non in caso di determinazione di un risultato diverso rispetto a quello indicato in dichiarazione. In altre parole, la notifica dell’avviso bonario è indispensabile ove risultino incertezze su aspetti rilevanti della dichiarazione presentata dal contribuente mentre non lo è in presenza di omessi o ritardati versamenti di imposte già dichiarate dal contribuente ( cfr Cass. Ord. n. 12997/2011). Diversa ancora è la situazione prevista dall’art. 36 ter D.P.R. n. 600/1973 rispetto alla liquidazione di cui all’art. 36 bis del medesimo decreto; al più incisivo tipo di controllo previsto dall’art. 36 ter (cd controllo formale delle dichiarazioni) il legislatore ha fatto conseguire una fase procedimentale necessaria di garanzia per il contribuente. L’art. 36 ter comma 4 prevede infatti l’obbligo per l’A.F. di comunicare i motivi della rettifica operata in un’apposita comunicazione, che assolve da un lato alla funzione di portare a conoscenza del contribuente le ragioni poste alla base dei recuperi d’imposta operati dall’Ufficio procedente, dall’altro di consentire al contribuente la segnalazione di dati ed elementi non considerati o valutati erroneamente con la conseguenza che il mancato invio della suddetta comunicazione incide sulla legittimità dell’iscrizione a ruolo e della cartella di pagamento successivamente notificata al contribuente ( cfr Cass. n. 15311/2014).
Resta ancora controversa la questione se sia impugnabile o meno la comunicazione di irregolarità ex art. 36 DPR 600/1973 ; per una parte della giurisprudenza occorre attendere infatti la notifica della cartella in quanto la comunicazione dell’esito del controllo non è atto impugnabile ed è pertanto esclusa la possibilità di adire il giudice tributario e quindi il diritto di difesa potrà essere esercitato impugnando la relativa cartella di pagamento. Per un diverso orientamento giurisprudenziale, secondo il quale il principio di tassatività degli atti impugnabile ha subito un evidente ridimensionamento, l’elenco degli atti impugnabili contenuti nell’art. 19 D.lgs 546/1992 non ha natura tassativa , ma in ragione dei principi costituzionali di tutela del contribuente e buon andamento della P.A. ogni atto adottato dall’ente impositore che porti a conoscenza del contribuente una specifica pretesa tributaria, con esplicitazione delle concrete ragioni fattuali e giuridiche, è impugnabile avanti al giudice tributario senza necessità che si manifesti in forma autoritativa , sicchè è immediatamente impugnabile anche la comunicazione emessa a norma dell’art. 36 ter comma 4 D.P.R. 600/1973. In tal senso si espressa la CTP di Milano Sez. IX, sentenza n.2931/16, secondo cui cui le comunicazioni di irregolarità costituiscono “espressione di una compiuta e definita pretesa tributaria” e conseguentemente sono atti impugnabili e ciò a prescindere dal fatto che le stesse non rientrino nell’elenco tassativo degli atti impugnabili richiamati dall’art. 19 cit.
ASSOCIAZIONE SPORTIVA – SPONSORIZZAZIONE E PUBBLICITA’ – DETRAIBILITA’ DELL’I.V.A.
Si richiama un’interessante massima della Comm. Trib. Reg. Liguria Coll.2 del 6/5/2019 n. 530 in tema di sponsorizzazione e pubblicità e ciò ai fini della detraibilità dell’I.V.A. da parte delle associazioni sportive.
In conformità alla giurisprudenza consolidata della Suprema Corte, la sponsorizzazione, pur potendo essere ricondotta al concetto ampio di pubblicità, nondimeno, come specifica forma contrattuale creata dall’autonomia privata, se ne distingue.
In relazione, per esempio, ad un evento sportivo si ha mera pubblicità se l’attività promozionale è, rispetto all’evento stesso, in rapporto di semplice occasionalità (è il caso di cartelli collocati ai margini di un campo sportivo rispetto ai quali qualsiasi fatto agonistico è occasione per rendere operativo il messaggio propagandistico), mentre si ha sponsorizzazione se tra la promozione di un nome o di un marchio e l’avvenimento agonistico viene istituito uno specifico abbinamento.
Intesa in questo senso la sponsorizzazione è in relazione non di mera occasionalità ma di “connessione” con lo spettacolo. Pertanto nel caso in cui sia riscontrabile una continuità nel tempo della prestazione dovrà essere esclusa la “semplice occasionalità”, con la conseguenza che sarà configurabile una sponsorizzazione e non una pubblicità, con le relative limitazioni ai fini della detraibilità dell’I.V.A.
Brevi considerazioni in tema di sponsorizzazione ex art. 109 D.P.R. 917/86
Le spese di rappresentanza costituiscono somme corrisposte a titolo gratuito oppure con mere finalità promozionali, che consistono nella divulgazione sul mercato dell’attività svolta, dei beni e dei servizi prodotti a beneficio sia di attuali clienti che di di clienti potenziali, o di pubbliche relazioni, cioè volte a diffondere od a consolidare l’immagine dell’impresa ed accrescerne l’apprezzamento presso il pubblico. L’elemento discretivo rispetto alle spese di pubblicità è la gratuità, ovvero la mancanza di un corrispettivo in capo alla controparte e di un correlato obbligo di dare o fare. In assenza di gratuità non può pertanto esserci spesa di rappresentanza.
Sotto altro profilo, una spesa di rappresentanza deve inoltre risultare ragionevole, cioè idonea a generare ricavi adeguati rispetto all’obbiettivo atteso in termini di ritorno economico oppure, in alternativa, deve essere coerente con le pratiche commerciali del settore.
Per quanto riguarda invece i contratti di sponsorizzazione, essi prevedono l’utilizzazione ai fini promozionali dell’attività, del nome o dell’immagine del soggetto sponsorizzato dietro un corrispettivo in denaro. Il criterio determinante a distinguere spese di sponsorizzazione e spese di rappresentanza è l’aspettativa di ritorno commerciale, per cui le prime sono tese ad ottenere un incremento più o meno immediato delle vendite di prodotti o servizi mentre le seconde mirano ad un potenziamento del prestigio e dell’immagine dell’impresa, senza l’aspettativa di un ritorno commerciale diretto.
Si evidenzia altresì come le spese di sponsorizzazione siano sempre deducibili dal reddito d’impresa, anche in assenza di risultati tangibili in tema di incremento del fatturato; di conseguenza conformemente alla giurisprudenza della Suprema Corte, è illegittimo giudicare ex post, da parte dell’Ufficio, l’effetto della sponsorizzazione e concludere che, ove l’aumento delle vendite non sia sensibile, allora il costo sia antieconomico e quindi non deducibile, essendo la valutazione circa la congruità del costo riservata all’autonomo giudizio dell’imprenditore. Per ritenere un costo non congruo o non inerente non ci si può limitare ad affermare che esso appaia difforme rispetto alla tendenza di mercato ma occorre accertare che esso sia estraneo all’attività di impresa. In ogni caso i requisiti di determinabilità e di certezza devono essere sempre soddisfatti dall’imprenditore; ad esempio la standardizzazione del contratto, la mancata indicazione delle modalità di determinazione del corrispettivo, la genericità delle fatture ed insomma la carenza di documentazione possono portare al disconoscimento dei costi afferenti una sponsorizzazione.
LA CONTESTAZIONE IN CAPO AL CONTRIBUENTE DELL’UTILIZZAZIONE DI FATTURE FALSE
Sussiste un obbligo di diligenza sostanziale nella scelta del fornitore e di attenzione ai requisiti del soggetto cedente (effettiva esistenza, efficiente struttura operativa, capacità di fornire autonomamente i beni acquistati)basato su elementi obiettivi che non possono sfuggire ad un contraente e ad un imprenditore mediamente accorto (assenza di clientela, mancanza di indici di capacità commerciale, mancanza di pubblicità o giro d’affari etc.).
La buona fede comporta la convinzione di un soggetto di agire in maniera corretta, cioè senza malizia e nel sostanziale rispetto delle regole e di non ledere nessuno: va da se’ che il contribuente non può limitarsi alla sola esibizione dei mezzi di pagamento o dei documenti contabili ,in quanto riscontri regolarmente posti in essere da coloro che intendono perpetrare una frode, proprio per non destare particolari sospetti (cfr CTR Lombardia sez. 14 n. 1554/18).
Ai fini della valutazione della buona fede secondo la Corte di Cassazione e la Corte di Giustizia europea occorre esibire i documenti contabili, dimostrare che i predetti documenti provengono da un soggetto realmente esistente, provare l’esistenza della sede sociale, di locali adibiti all’impresa, la presenza di titolari e/o dipendenti presso l’impresa, dimostrare che l’acquirente non ha ottenuto alcun vantaggio o benefico economico dall’eventuale frode cui ha partecipato il venditore (beni a prezzi inferiori, ristorno di pagamenti fatti per contanti etc.) ed attestare l’utilizzo di modalità di pagamento tracciabili (bonifici, assegni, etc).
In definitiva di fronte ad un accertamento dell’ Agenzia delle Entrate volto a contestare la falsa fatturazione per operazioni inesistenti in modo da recuperare costi indeducibili ed IVA indetraibile (oltre le sanzioni) è l’Amministrazione finanziaria a dover provare l’asserita inesistenza, considerando che i mezzi istruttori di cui si serve normalmente il contribuente per vincere la pretesa erariale, le fatture appunto, non possono essere invocate a sua favore in quanto affette da falsità ideologica. In seguito all’assolvimento da parte dell’Ufficio del predetto onere probatorio, quest’ultimo si sposta in capo al contribuente: nel caso di operazioni asseritamente inesistenti sotto il profilo oggettivo ,il contribuente è chiamato a dimostrare l’effettività delle transazioni tramite qualsiasi elemento idoneo ad attestare l’esistenza delle merci, la relativa movimentazione ed i correlati flussi di pagamento. In ipotesi di contestazione di fatture false per operazioni soggettivamente inesistenti, il contribuente dovrà dare la prova che la transazione si è concretamente svolta tra i soggetti indicati in fattura, o in alternativa, che non sapeva nè avrebbe potuto sapere ,neppure utilizzando la buona diligenza, della frode posta in essere dai propri fornitori o dagli operatori rintracciabili a monte della filiera (cfr Il Sole 24 ore 15/06/2018 avv. G.Marzo-I. Barbieri).
Rapporti tra accertamento tributario e giudicato penale
Sono ben distinte le regole tipiche del sistema tributario da quello penale, stante il rapporto di autonomia tra giudizio penale e quello tributario; nessuna “automatica” autorità di cosa giudicata può attribuirsi nel giudizio tributario alla sentenza penale emessa in materia di reati tributari, ancorchè i fatti accertati siano gli stessi per i quali l’amministrazione finanziaria ha promosso l’accertamento nei confronti del contribuente.
Ai nostri fini rileva il combinato disposto dell’art. 654 c.p.p. e dell’art. 20 D.lgs 74/2000 e ciò con riferimento alle differenze dei regimi istruttori in ambito penale e tributario. Il processo tributario è fondamentalmente e quasi esclusivamente un processo documentale in quanto l’art. 7 del D.lgs 546/1992 vieta il giuramento e la prova testimoniale, La semplice lettura delle norme citate ci consentono di pervenire alla conclusione incontestabile che il giudicato penale non può mai fare stato nel giudizio tributario.
Resta comunque il fatto che una sentenza ex art. 444 c.p.p. ( cd patteggiamento) nella prassi quotidiana delle Commissioni tributarie viene presa in considerazione come presunzione semplice in senso sfavorevole al contribuente.
Per converso è da escludere l’incidenza del giudicato tributario nel parallelo processo penale sia perchè diversi sono gli strumenti probatori e di difesa sia perché il principio del “libero convincimento” del giudice penale non si concilia con la presenza di giudicati vincolanti. Il recepimento, da parte del giudice penale, dell’accertamento sul fatto emergente da una sentenza irrevocabile pronunciata in esito al processo tributario (caratterizzato da limitazioni alla prova) deve ritenersi consentito ai sensi dell’art. 238 c.p.p.,ma deve accompagnarsi (stante il richiamo agli artt. 187 e 192 c.p.p. contenuto in quella norma) ad una verifica delle compatibilità degli elementi su cui si fonda con le risultanze del processo penale.
PRESUNZIONE DI EVASIONE SANCITA DALL’ART. 12 D.L. 78/2009 ED ULTIMI ARRESTI GIURISPRUDENZIALI
La norma di cui all’art. 12, seconda comma, del d.l. 78 del 2009,ai fini del contrasto ai cd paradisi fiscali, prevede che “in deroga ad ogni vigente disposizione di legge,gli investimenti e le attività di natura finanziaria detenute negli Stati o territori a regime fiscale privilegiato di cui al decreto del Ministro delle Finanze 4 maggio 1999, pubblicato nella G.U. del 10&05/1999 n. 107 , e al decreto del Ministro dell’economia e delle finanze 21/11/2001, pubblicato nella G.U. del 23/11/2001 n. 273, senza tener conto delle limitazioni ivi previste, in violazione degli obblighi di cui ai commi 1,2 e 3 dell’art. 4 del decreto-legge n. 167/1990, convertito dalla legge 4 agosto 1990, n. 227, ai soli fini fiscali si presumono costituite, salvo prova contraria, mediante redditi sottratti a tassazione. In tale caso, le sanzioni previste dall’art, 1 del decreto legislativo n. 471 del 1997 sono raddoppiate”.
L’Amministrazione Finanziaria deduce nella prassi come motivo di impugnazione nei contenziosi in materia la violazione della suddetta norma nella parte in cui se ne fa un’applicazione non retroattiva, che invece è smentita, secondo l’Ufficio, dalla natura processuale della norma anzichè sostanziale.
Senonchè la Corte di Cassazione ha chiarito definitivamente che la presunzione di evasione sancita dalla norma in questione, in vigore dal 1 luglio 2009, non ha efficacia retroattiva in quanto non può attribuirsi alla stessa natura processuale, essendo le norme in tema di presunzione collocate, tra quelle sostanziali nel codice civile. Inoltre una differente interpretazione finirebbe per pregiudicare-in contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost.- l’effettività del diritto di difesa del contribuente rispetto alla scelta in ordine alla conservazione di un certo tipo di documentazione sotto il profilo probatorio rilevante (Cass n. 2662-18 , Ordinanza Cass. sez 6 n. 5741/2019).
Quadro RW e presunzione di evasione fiscale ex art. 12 D. L. n. 78/2009
L’Amministrazione finanziaria ha emesso in questi anni numerosi accertamenti sostenuti dal rilievo (circ. 13.3.2015 n.10 e 19.2.2015 n.6) che alle attività finanziarie detenute all’estero si deve applicare la presunzione di cui all’art. 12 secondo comma del d.l. 78/2009. Tale norma,ai fini del contrasto ai cd. paradisi fiscali,prevede che “in deroga ad ogni vigente disposizione di legge, gli investimenti e le attività di natura finanziaria detenute negli Stati o territori a regime fiscale privilegiato di cui al decreto del Ministero delle Finanze 4 maggio 1999 pubblicata sulla G.U. del 10 maggio 1999, n.107 al d.m. del Ministero dell’economia e delle finanze del 21 novembre 2001, pubblicato sulla G.U. del 23 novembre 2001 n. 273, senza tener conto delle limitazioni ivi previste, in violazione degli obblighi di dichiarazione di cui commi,2 e 3 dell’art. 4 D.L. n. 167/1990 conv. L. n. 227/1990, ai soli fini fiscali, si presumono costituite all’estero, salva prova contraria, mediante redditi sottratti a tassazione. In tale caso,le sanzioni dall’art. 1 del d.lgs. n. 41/1997 previste dall’art. 1 sono raddoppiate”. Ciò detto, la Corte di Cassazione ha sancito definitivamente che la presunzione di evasione sancita da tale norma,in vigore dal 1 luglio 2009,non ha efficacia retroattiva, in quanto non può attribuirsi alla stessa natura processuale, essendo le norme in tema di presunzioni collocate tra quelle sostanziali nel codice civile. Inoltre una differente interpretazione finirebbe per pregiudicare – in contrasto con l’art. 3 e 24 Cost.- l’effettività del diritto di difesa del contribuente rispetto alla scelta in ordine alla conservazione di un certo tipo di documentazione sotto il profilo probatorio rilevante (Cass. 2 febbraio 2018 n. 2662).
Se a seguito della sentenza della Corte non possono più sorgere dubbi sulla irretroattività della presunzione di imponibilità dei capitali esteri (e di conseguenza sull’impossibilità di applicare il raddoppio dei termini di accertamento ad annualità antecedenti alla sua entrata in vigore), altrettanto non può dirsi per il raddoppio dei termini per le sanzioni (per sanzioni si intende quelle previste dall’art . 5 del D.L. n. 167/1990, unitamente a quelle da dichiarazione infedele e da dichiarazione omessa). L’obbligo del monitoraggio fiscale era infatti vigente anche prima del D.L. 78/2009 e quindi potrebbe ritenersi che anche le annualità precedenti all’entrata in vigore del suddetto decreto subiscano il raddoppio, in ragione della natura procedimentale della norma. Tuttavia una simile tesi non convince. In primo luogo perché una norma che, in qualsiasi maniera, incida su aspetti sanzionatori mai può essere definita procedurale.Oltre a ciò, il legislatore non ha sentito la necessità di inserire una norma di tenore analogo rispetto all’art. 37 comma 26 del D.L. n. 223/2006 sul raddoppio dei termini per violazioni penali secondo cui “la proroga si applica alle annualità ancora aperte alla data di entrata in vigore della legge.”
Violazione dell’art. 52 d.p.r. 600/1973 e consenso del contribuente
L’art. 52 del D.P.R. n.600/1973 prevede che per accedere in locali adibiti promiscuamente ad abitazione ed a sede dell’attività imprenditoriale occorre,oltre all’autorizzazione rilasciata dal capo dell’ufficio, anche quella del procuratore della Repubblica. In mancanza della suddetta autorizzazione, l’avviso di accertamento tributario eventualmente emesso può essere annullato e ciò per effetto della regola generale secondo cui l’assenza del presupposto di un procedimento amministrativo infirma tutti gli atti nei quali lo stesso si articola. Occorre precisare che l’orientamento della Suprema Corte è quello di ritenere che non esista nell’ordinamento tributario un principio generale di inutilizzabilità delle prove illegittimamente acquisite (lo stesso valendo anche all’interno del codice di procedura penale) sicchè l’acquisizione irrituale di elementi rilevanti ai fini dell’accertamento fiscale non comporta l’inutilizzabilità degli stessi, in mancanza di una specifica previsione in tale senso (Cass. 8344/2001) e ciò anche con riferimento all’attività della guardia di finanza che, cooperando con gli uffici finanziari, proceda ad ispezioni, verifiche, ricerca ed acquisizione di notizie non osservando la disciplina processualpenalistica avendo carattere amministrativo.
Cosa succede quindi se, in assenza di autorizzazione del procuratore della Repubblica,la documentazione viene comunque consegnata spontaneamente in sede di verifica da parte del contribuente? L’Agenzia delle Entrate sostiene che la consegna spontanea elide ogni vizio dell’attività di acquisizione della documentazione. La Suprema Corte è di diverso avviso per i motivi. Infatti il compito del giudice di vagliare le prove offerte in causa è circoscritto a quelle di cui abbia preventivamente riscontrato la rituale assunzione e la Corte perviene alla conclusione che l’inutilizzabilità dei documenti acquisiti in violazione del disposto dell’art. 52 cit. discende dal valore stesso dell’inviolabilità del domicilio solennemente consacrato nell’art. 14 Cost. (cfr sent. Cass. 15239/2001).La consegna spontanea della documentazione da parte del contribuente non può quindi rendere legittimo un accesso operato al di fuori delle previsioni legislative e pertanto il consenso del contribuente all’accesso illegittimo è del tutto privo di rilievo giuridico, non essendo il consenso in questione richiesto e/o preso in considerazione da nessuna norma di legge.
Messa alla prova e reati tributari
La legge n.67/2014, traendo ispirazione da istituti di matrice anglosassone,ha introdotto nel nostro ordinamento la messa alla prova, quale ulteriore strumento di deflazione processuale e di alleggerimento della gravosa situazione carceraria, imposta anche dalla Corte Edu con la condanna inflitta all’Italia nel caso Torreggiani c. Italia. L’istituto prevede che – in relazione ai procedimenti per i reati meno gravi ed in presenza di talune condizioni- sia data la possibilità all’imputato che lo richieda di evitare la celebrazione del processo e di essere sottoposto ad un trattamento rieducativo con lo svolgimento di attività socialmente utili e l’attuazione di condotte riparatorie. L’accesso all’istituto presuppone da un lato la verifica del giudice circa la sussistenza dei requisiti oggettivi e soggettivi previsti dal legislatore e l’idoneità del trattamento proposto, dall’altro la prognosi che il soggetto si asterrà per il futuro da commettere ulteriori reati, dunque l’assenza di pericolosità sociale. La messa alla prova implica quindi la sottoposizione del soggetto a specifici obblighi e prescrizioni; per un verso prevede l’affidamento al servizio sociale per lo svolgimento del lavoro di pubblica utilità che assume la duplice valenza rieducativa e sanzionatoria; per altro verso impone la prestazione di condotte riparatorie e restitutorie al fine di eliminare le conseguenze dannose o pericolose derivanti dal reato. e ove possibile di prestare il risarcimento del danno cagionato alla parte offesa.
In tema di reati tributari, gli stessi non sono esclusi dalla messa alla prova e per questo motivo per i reati puniti con una pena detentiva inferiore a 4 anni è possibile accedere all’istituto della messa alla prova (a titolo esemplificativo nulla quaestio per il reato di dichiarazione infedele, per l’omesso versamento delle ritenute). Per i reati più gravi previsti dal D.lvo 74/2000 è preclusa,invece,la possibilità di accedere all’istituto in parola.
Resta infine aperta la questione del risarcimento del danno erariale, tenendo comunque presente che la Cassazione è pervenuta alla conclusione che la sospensione del procedimento non può essere subordinata all’integrale risarcimento del danno, la cui doverosità dipende dalla specificità del caso concreto (Cass.Pen. n. 5784/2018).