Category Archives: Imposte sui redditi
Controlli automatici: necessità della comunicazione preventiva
L’invio del cd avviso bonario (comunicazione di irregolarità) a seguito di controlli automatici sulle liquidazioni delle imposte (art.36 bis D.P.R. 600/1973 e 54-bis D.P.R. 633/1972) non è necessario in caso di omissione o carenza di versamenti, non sussistendo in capo all’amministrazione finanziaria un obbligo generalizzato di comunicare gli esiti dei controlli automatici, se non in caso di determinazione di un risultato diverso rispetto a quello indicato in dichiarazione. In altre parole, la notifica dell’avviso bonario è indispensabile ove risultino incertezze su aspetti rilevanti della dichiarazione presentata dal contribuente mentre non lo è in presenza di omessi o ritardati versamenti di imposte già dichiarate dal contribuente ( cfr Cass. Ord. n. 12997/2011). Diversa ancora è la situazione prevista dall’art. 36 ter D.P.R. n. 600/1973 rispetto alla liquidazione di cui all’art. 36 bis del medesimo decreto; al più incisivo tipo di controllo previsto dall’art. 36 ter (cd controllo formale delle dichiarazioni) il legislatore ha fatto conseguire una fase procedimentale necessaria di garanzia per il contribuente. L’art. 36 ter comma 4 prevede infatti l’obbligo per l’A.F. di comunicare i motivi della rettifica operata in un’apposita comunicazione, che assolve da un lato alla funzione di portare a conoscenza del contribuente le ragioni poste alla base dei recuperi d’imposta operati dall’Ufficio procedente, dall’altro di consentire al contribuente la segnalazione di dati ed elementi non considerati o valutati erroneamente con la conseguenza che il mancato invio della suddetta comunicazione incide sulla legittimità dell’iscrizione a ruolo e della cartella di pagamento successivamente notificata al contribuente ( cfr Cass. n. 15311/2014).
Resta ancora controversa la questione se sia impugnabile o meno la comunicazione di irregolarità ex art. 36 DPR 600/1973 ; per una parte della giurisprudenza occorre attendere infatti la notifica della cartella in quanto la comunicazione dell’esito del controllo non è atto impugnabile ed è pertanto esclusa la possibilità di adire il giudice tributario e quindi il diritto di difesa potrà essere esercitato impugnando la relativa cartella di pagamento. Per un diverso orientamento giurisprudenziale, secondo il quale il principio di tassatività degli atti impugnabile ha subito un evidente ridimensionamento, l’elenco degli atti impugnabili contenuti nell’art. 19 D.lgs 546/1992 non ha natura tassativa , ma in ragione dei principi costituzionali di tutela del contribuente e buon andamento della P.A. ogni atto adottato dall’ente impositore che porti a conoscenza del contribuente una specifica pretesa tributaria, con esplicitazione delle concrete ragioni fattuali e giuridiche, è impugnabile avanti al giudice tributario senza necessità che si manifesti in forma autoritativa , sicchè è immediatamente impugnabile anche la comunicazione emessa a norma dell’art. 36 ter comma 4 D.P.R. 600/1973. In tal senso si espressa la CTP di Milano Sez. IX, sentenza n.2931/16, secondo cui cui le comunicazioni di irregolarità costituiscono “espressione di una compiuta e definita pretesa tributaria” e conseguentemente sono atti impugnabili e ciò a prescindere dal fatto che le stesse non rientrino nell’elenco tassativo degli atti impugnabili richiamati dall’art. 19 cit.
Brevi considerazioni in tema di sponsorizzazione ex art. 109 D.P.R. 917/86
Le spese di rappresentanza costituiscono somme corrisposte a titolo gratuito oppure con mere finalità promozionali, che consistono nella divulgazione sul mercato dell’attività svolta, dei beni e dei servizi prodotti a beneficio sia di attuali clienti che di di clienti potenziali, o di pubbliche relazioni, cioè volte a diffondere od a consolidare l’immagine dell’impresa ed accrescerne l’apprezzamento presso il pubblico. L’elemento discretivo rispetto alle spese di pubblicità è la gratuità, ovvero la mancanza di un corrispettivo in capo alla controparte e di un correlato obbligo di dare o fare. In assenza di gratuità non può pertanto esserci spesa di rappresentanza.
Sotto altro profilo, una spesa di rappresentanza deve inoltre risultare ragionevole, cioè idonea a generare ricavi adeguati rispetto all’obbiettivo atteso in termini di ritorno economico oppure, in alternativa, deve essere coerente con le pratiche commerciali del settore.
Per quanto riguarda invece i contratti di sponsorizzazione, essi prevedono l’utilizzazione ai fini promozionali dell’attività, del nome o dell’immagine del soggetto sponsorizzato dietro un corrispettivo in denaro. Il criterio determinante a distinguere spese di sponsorizzazione e spese di rappresentanza è l’aspettativa di ritorno commerciale, per cui le prime sono tese ad ottenere un incremento più o meno immediato delle vendite di prodotti o servizi mentre le seconde mirano ad un potenziamento del prestigio e dell’immagine dell’impresa, senza l’aspettativa di un ritorno commerciale diretto.
Si evidenzia altresì come le spese di sponsorizzazione siano sempre deducibili dal reddito d’impresa, anche in assenza di risultati tangibili in tema di incremento del fatturato; di conseguenza conformemente alla giurisprudenza della Suprema Corte, è illegittimo giudicare ex post, da parte dell’Ufficio, l’effetto della sponsorizzazione e concludere che, ove l’aumento delle vendite non sia sensibile, allora il costo sia antieconomico e quindi non deducibile, essendo la valutazione circa la congruità del costo riservata all’autonomo giudizio dell’imprenditore. Per ritenere un costo non congruo o non inerente non ci si può limitare ad affermare che esso appaia difforme rispetto alla tendenza di mercato ma occorre accertare che esso sia estraneo all’attività di impresa. In ogni caso i requisiti di determinabilità e di certezza devono essere sempre soddisfatti dall’imprenditore; ad esempio la standardizzazione del contratto, la mancata indicazione delle modalità di determinazione del corrispettivo, la genericità delle fatture ed insomma la carenza di documentazione possono portare al disconoscimento dei costi afferenti una sponsorizzazione.
LA CONTESTAZIONE IN CAPO AL CONTRIBUENTE DELL’UTILIZZAZIONE DI FATTURE FALSE
Sussiste un obbligo di diligenza sostanziale nella scelta del fornitore e di attenzione ai requisiti del soggetto cedente (effettiva esistenza, efficiente struttura operativa, capacità di fornire autonomamente i beni acquistati)basato su elementi obiettivi che non possono sfuggire ad un contraente e ad un imprenditore mediamente accorto (assenza di clientela, mancanza di indici di capacità commerciale, mancanza di pubblicità o giro d’affari etc.).
La buona fede comporta la convinzione di un soggetto di agire in maniera corretta, cioè senza malizia e nel sostanziale rispetto delle regole e di non ledere nessuno: va da se’ che il contribuente non può limitarsi alla sola esibizione dei mezzi di pagamento o dei documenti contabili ,in quanto riscontri regolarmente posti in essere da coloro che intendono perpetrare una frode, proprio per non destare particolari sospetti (cfr CTR Lombardia sez. 14 n. 1554/18).
Ai fini della valutazione della buona fede secondo la Corte di Cassazione e la Corte di Giustizia europea occorre esibire i documenti contabili, dimostrare che i predetti documenti provengono da un soggetto realmente esistente, provare l’esistenza della sede sociale, di locali adibiti all’impresa, la presenza di titolari e/o dipendenti presso l’impresa, dimostrare che l’acquirente non ha ottenuto alcun vantaggio o benefico economico dall’eventuale frode cui ha partecipato il venditore (beni a prezzi inferiori, ristorno di pagamenti fatti per contanti etc.) ed attestare l’utilizzo di modalità di pagamento tracciabili (bonifici, assegni, etc).
In definitiva di fronte ad un accertamento dell’ Agenzia delle Entrate volto a contestare la falsa fatturazione per operazioni inesistenti in modo da recuperare costi indeducibili ed IVA indetraibile (oltre le sanzioni) è l’Amministrazione finanziaria a dover provare l’asserita inesistenza, considerando che i mezzi istruttori di cui si serve normalmente il contribuente per vincere la pretesa erariale, le fatture appunto, non possono essere invocate a sua favore in quanto affette da falsità ideologica. In seguito all’assolvimento da parte dell’Ufficio del predetto onere probatorio, quest’ultimo si sposta in capo al contribuente: nel caso di operazioni asseritamente inesistenti sotto il profilo oggettivo ,il contribuente è chiamato a dimostrare l’effettività delle transazioni tramite qualsiasi elemento idoneo ad attestare l’esistenza delle merci, la relativa movimentazione ed i correlati flussi di pagamento. In ipotesi di contestazione di fatture false per operazioni soggettivamente inesistenti, il contribuente dovrà dare la prova che la transazione si è concretamente svolta tra i soggetti indicati in fattura, o in alternativa, che non sapeva nè avrebbe potuto sapere ,neppure utilizzando la buona diligenza, della frode posta in essere dai propri fornitori o dagli operatori rintracciabili a monte della filiera (cfr Il Sole 24 ore 15/06/2018 avv. G.Marzo-I. Barbieri).
PRESUNZIONE DI EVASIONE SANCITA DALL’ART. 12 D.L. 78/2009 ED ULTIMI ARRESTI GIURISPRUDENZIALI
La norma di cui all’art. 12, seconda comma, del d.l. 78 del 2009,ai fini del contrasto ai cd paradisi fiscali, prevede che “in deroga ad ogni vigente disposizione di legge,gli investimenti e le attività di natura finanziaria detenute negli Stati o territori a regime fiscale privilegiato di cui al decreto del Ministro delle Finanze 4 maggio 1999, pubblicato nella G.U. del 10&05/1999 n. 107 , e al decreto del Ministro dell’economia e delle finanze 21/11/2001, pubblicato nella G.U. del 23/11/2001 n. 273, senza tener conto delle limitazioni ivi previste, in violazione degli obblighi di cui ai commi 1,2 e 3 dell’art. 4 del decreto-legge n. 167/1990, convertito dalla legge 4 agosto 1990, n. 227, ai soli fini fiscali si presumono costituite, salvo prova contraria, mediante redditi sottratti a tassazione. In tale caso, le sanzioni previste dall’art, 1 del decreto legislativo n. 471 del 1997 sono raddoppiate”.
L’Amministrazione Finanziaria deduce nella prassi come motivo di impugnazione nei contenziosi in materia la violazione della suddetta norma nella parte in cui se ne fa un’applicazione non retroattiva, che invece è smentita, secondo l’Ufficio, dalla natura processuale della norma anzichè sostanziale.
Senonchè la Corte di Cassazione ha chiarito definitivamente che la presunzione di evasione sancita dalla norma in questione, in vigore dal 1 luglio 2009, non ha efficacia retroattiva in quanto non può attribuirsi alla stessa natura processuale, essendo le norme in tema di presunzione collocate, tra quelle sostanziali nel codice civile. Inoltre una differente interpretazione finirebbe per pregiudicare-in contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost.- l’effettività del diritto di difesa del contribuente rispetto alla scelta in ordine alla conservazione di un certo tipo di documentazione sotto il profilo probatorio rilevante (Cass n. 2662-18 , Ordinanza Cass. sez 6 n. 5741/2019).
Quadro RW e presunzione di evasione fiscale ex art. 12 D. L. n. 78/2009
L’Amministrazione finanziaria ha emesso in questi anni numerosi accertamenti sostenuti dal rilievo (circ. 13.3.2015 n.10 e 19.2.2015 n.6) che alle attività finanziarie detenute all’estero si deve applicare la presunzione di cui all’art. 12 secondo comma del d.l. 78/2009. Tale norma,ai fini del contrasto ai cd. paradisi fiscali,prevede che “in deroga ad ogni vigente disposizione di legge, gli investimenti e le attività di natura finanziaria detenute negli Stati o territori a regime fiscale privilegiato di cui al decreto del Ministero delle Finanze 4 maggio 1999 pubblicata sulla G.U. del 10 maggio 1999, n.107 al d.m. del Ministero dell’economia e delle finanze del 21 novembre 2001, pubblicato sulla G.U. del 23 novembre 2001 n. 273, senza tener conto delle limitazioni ivi previste, in violazione degli obblighi di dichiarazione di cui commi,2 e 3 dell’art. 4 D.L. n. 167/1990 conv. L. n. 227/1990, ai soli fini fiscali, si presumono costituite all’estero, salva prova contraria, mediante redditi sottratti a tassazione. In tale caso,le sanzioni dall’art. 1 del d.lgs. n. 41/1997 previste dall’art. 1 sono raddoppiate”. Ciò detto, la Corte di Cassazione ha sancito definitivamente che la presunzione di evasione sancita da tale norma,in vigore dal 1 luglio 2009,non ha efficacia retroattiva, in quanto non può attribuirsi alla stessa natura processuale, essendo le norme in tema di presunzioni collocate tra quelle sostanziali nel codice civile. Inoltre una differente interpretazione finirebbe per pregiudicare – in contrasto con l’art. 3 e 24 Cost.- l’effettività del diritto di difesa del contribuente rispetto alla scelta in ordine alla conservazione di un certo tipo di documentazione sotto il profilo probatorio rilevante (Cass. 2 febbraio 2018 n. 2662).
Se a seguito della sentenza della Corte non possono più sorgere dubbi sulla irretroattività della presunzione di imponibilità dei capitali esteri (e di conseguenza sull’impossibilità di applicare il raddoppio dei termini di accertamento ad annualità antecedenti alla sua entrata in vigore), altrettanto non può dirsi per il raddoppio dei termini per le sanzioni (per sanzioni si intende quelle previste dall’art . 5 del D.L. n. 167/1990, unitamente a quelle da dichiarazione infedele e da dichiarazione omessa). L’obbligo del monitoraggio fiscale era infatti vigente anche prima del D.L. 78/2009 e quindi potrebbe ritenersi che anche le annualità precedenti all’entrata in vigore del suddetto decreto subiscano il raddoppio, in ragione della natura procedimentale della norma. Tuttavia una simile tesi non convince. In primo luogo perché una norma che, in qualsiasi maniera, incida su aspetti sanzionatori mai può essere definita procedurale.Oltre a ciò, il legislatore non ha sentito la necessità di inserire una norma di tenore analogo rispetto all’art. 37 comma 26 del D.L. n. 223/2006 sul raddoppio dei termini per violazioni penali secondo cui “la proroga si applica alle annualità ancora aperte alla data di entrata in vigore della legge.”
Violazione dell’art. 52 d.p.r. 600/1973 e consenso del contribuente
L’art. 52 del D.P.R. n.600/1973 prevede che per accedere in locali adibiti promiscuamente ad abitazione ed a sede dell’attività imprenditoriale occorre,oltre all’autorizzazione rilasciata dal capo dell’ufficio, anche quella del procuratore della Repubblica. In mancanza della suddetta autorizzazione, l’avviso di accertamento tributario eventualmente emesso può essere annullato e ciò per effetto della regola generale secondo cui l’assenza del presupposto di un procedimento amministrativo infirma tutti gli atti nei quali lo stesso si articola. Occorre precisare che l’orientamento della Suprema Corte è quello di ritenere che non esista nell’ordinamento tributario un principio generale di inutilizzabilità delle prove illegittimamente acquisite (lo stesso valendo anche all’interno del codice di procedura penale) sicchè l’acquisizione irrituale di elementi rilevanti ai fini dell’accertamento fiscale non comporta l’inutilizzabilità degli stessi, in mancanza di una specifica previsione in tale senso (Cass. 8344/2001) e ciò anche con riferimento all’attività della guardia di finanza che, cooperando con gli uffici finanziari, proceda ad ispezioni, verifiche, ricerca ed acquisizione di notizie non osservando la disciplina processualpenalistica avendo carattere amministrativo.
Cosa succede quindi se, in assenza di autorizzazione del procuratore della Repubblica,la documentazione viene comunque consegnata spontaneamente in sede di verifica da parte del contribuente? L’Agenzia delle Entrate sostiene che la consegna spontanea elide ogni vizio dell’attività di acquisizione della documentazione. La Suprema Corte è di diverso avviso per i motivi. Infatti il compito del giudice di vagliare le prove offerte in causa è circoscritto a quelle di cui abbia preventivamente riscontrato la rituale assunzione e la Corte perviene alla conclusione che l’inutilizzabilità dei documenti acquisiti in violazione del disposto dell’art. 52 cit. discende dal valore stesso dell’inviolabilità del domicilio solennemente consacrato nell’art. 14 Cost. (cfr sent. Cass. 15239/2001).La consegna spontanea della documentazione da parte del contribuente non può quindi rendere legittimo un accesso operato al di fuori delle previsioni legislative e pertanto il consenso del contribuente all’accesso illegittimo è del tutto privo di rilievo giuridico, non essendo il consenso in questione richiesto e/o preso in considerazione da nessuna norma di legge.
RESIDENZA FISCALE: “LEGAMI FAMILIARI E PROFESSIONALI”
In tema di imposte sui redditi l’art 2 comma 2 del D.P.R. n. 917/16 individua perché sussista la residenza fiscale nello Stato tre presupposti indicati in via del tutto alternativa : il primo ,formale, rappresentato dalle iscrizioni nelle anagrafiche delle popolazioni residenti, gli altri due , di fatto, costituiti dalla residenza o dal domicilio nello Stato ai sensi del codice civile; ne consegue che l’iscrizione del cittadino nell’anagrafe dei residenti all’estero(AIRE) non è elemento determinante per escludere la residenza fiscale in Italia, allorchè il soggetto abbia nel territorio dello Stato il proprio domicilio inteso come sede principale degli affari ed interessi economici nonché delle proprie relazioni personali (Cass.Civ. n. 13803/01 – Cass.Civ. n. 14434/10).
La giurisprudenza della Corte di Giustizia si muove sullo stesso piano laddove si esprime nel senso che “ai fini della determinazione del luogo di residenza devono essere presi in considerazione sia i legami professionali e personali dell’interessato in un luogo determinato, sia la loro durata e qualora tali legami non siano concentrati in un solo Stato, l’art. 7 n. 1 comma 2 della Direttiva 83/82/CEE riconosce la preminenza dei legami personali sui legami professionali. Nell’ambito della valutazione dei legami personali e professionali dell’interessato tutti gli elementi di fatto rilevanti devono essere presi in considerazione vale a dire, in particolare, la presenza fisica sul territorio dello Stato, la disponibilità di un’abitazione , il luogo di esercizio dell’attività patrimoniali e quello in cui via siano gli interessi patrimoniali”
Giova ricordare che la norma di cui all’art. 2 comma 2-bis TUIR introduce altresì una presunzione relativa di residenza per i cittadini che trasferiscono la propria residenza o il proprio domicilio in Paesi a fiscalità privilegiata; al fine di essere esclusi dal novero dei soggetti residenti in Italia ricade su di essi l’onere di provare di risiedere effettivamente in quei Paesi. Sul punto è utile precisare che in alcune sentenze della Cassazione – e ciò in contrasto con la giurisprudenza della Corte di Giustizia sopra richiamata- si privilegia il luogo in cui la gestione degli interessi economici viene esercitata abitualmente in modo riconoscibile a terzi e quindi non attribuendo alle relazioni affettive e familiari (c.d.legami personali ) alcuna rilevanza ai fini probatori della residenza fiscale.
Stante i diversi orientamenti non ancora consolidati la difesa del contribuente deve cercare necessariamente di valorizzare gli elementi di fatto a sostegno delle proprie ragioni e detta scelta “obbligherà” il giudice di merito a prenderli in considerazione (qualunque sia la decisione in concreto adottata).
CONTRADDITTORIO, STUDI DI SETTORE E ACCERTAMENTO ANALITICO-INDUTTIVO
Con la sentenza Cass. n. 7328/2017 qui segnalata la Suprema Corte ha statuito che in caso di accertamento cd “analitico-induttivo” basato almeno in parte sullo scostamento dallo studio di settore, l’atto impositivo de quo deve ritenersi nullo se non preceduto dal contraddittorio endoprocedimentale con il contribuente.
Nel caso di specie i giudici d’appello si erano espressi in tal senso; l’Ufficio ha contrastato senza successo tale statuizione sostenendo che l’atto impugnato non era stato emesso sulla base dello scostamento dallo studio di settore e che si trattava di un c.d. accertamento “analitico-induttivo” e che pertanto detto tipo di accertamento non implicava l’obbligo del contraddittorio preventivo.
Come è noto per gli accertamenti fondati sugli studi di settore nulla quaestio sull’obbligatorietà del contraddittorio preventivo come sancito dall’art. 10 comma 3 bis L.146/1998; per gli accertamenti cd “analitico.induttivi”tale obbligo non è previsto.
La sentenza qui citata è interessante perché perviene alla conclusione che in caso di atto impositivo “misto”, ossia un accertamento c.d. analitico-induttivo ex art 39 comma 1 lett d) DPR 600/1973 che sia almeno in parte basato sullo scostamento dello studio di settore, si impone il contraddittorio preventivo pena l’invalidità dell’atto medesimo in caso di omissione dell’adempimento procedurale del contraddittorio preventivo.
Come già evidenziato nel caso di avvisi di accertamento da studi di settore le Sezioni Unite hanno sancito definitivamente l’essenzialità del contraddittorio preventivo; oggi alla luce della giurisprudenza segnalata non sembra che nemmeno nel caso di “accertamenti da antieconomicità” possa prescindersi da tale fase istruttoria, con l’acquisizione delle giustificazioni dei contribuenti. Dette giustificazioni potrebbero condurre all’archiviazione del procedimento e quindi non possono essere pretermesse pena la nullità dell’atto.
CONTRADDITTORIO ED INERZIA DEL CONTRIBUENTE IN TEMA DI STUDI DI SETTORE
La Suprema Corte sez. 6 con ordinanza n. 9898/2017 ha accolto il ricorso dell’Ufficio, valorizzando la circostanza che nel caso di specie il contribuente aveva omessa di partecipare al contraddittorio (regolarmente attivato) e si era altresì astenuto da qualsivoglia allegazione.
Al comportamento sopra descritto consegue, secondo la Corte, che l’Ufficio (diversamente da quanto ritenuto dai giudici di merito) non è tenuto ad offrire alcuna ulteriore dimostrazione della pretesa esercitata essendo così sufficiente per fondare la pretesa tributaria l’accertato scostamento del reddito rispetto agli studi di settore.
Il contraddittorio deve essere obbligatoriamente attivato, pena la nullità del procedimento; tuttavia in caso di inerzia del contribuente l’avviso di accertamento è da considerarsi legittimo e la sua pretesa fondata anche se basati solo sul riscontrato scostamento dello studio di settore.
In definitiva il contribuente che non partecipa al contraddittorio preprocessuale non assolve l’onere controprobatorio rispetto al contestato scostamento. Conseguentemente non può dolersi del fatto che l’Ufficio non indichi ulteriori dati che consentano di adattare quelli astratti degli studi alla realtà del singolo contribuente. (Cfr ex multis Cass. Sez.V 17646/2014).
Un contrasto giurisprudenziale sui versamenti bancari dei lavoratori autonomi
In tema di versamenti effettuati dai lavoratori autonomi sui propri conti correnti resta invariata la presunzione legale posta dall’art. 32 DPR 600/1973 a favore dell’Amministrazione Finanziaria; è questa la conclusione cui perviene una recente sentenza della Corte di Cassazione sez. V Tributaria ( n.16697/16 depositata il 9/08/2016).
La suddetta pronuncia richiama la sentenza 24 settembre 2014 n. 228 con la quale la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art 32 comma 1 n. 2 secondo periodo in relazione agli artt. 3 e 53 Cost, nella parte in cui ha esteso ai lavoratori autonomi l’ambito di operatività delle presunzione in base alla quale le somme prelevate dal conto corrente costituiscono compensi assoggettabili a tassazione, se non sono annotate nelle scritture contabili e se non sono indicati i soggetti beneficiari dei pagamenti.
E’ stato ritenuto del tutto arbitrario ipotizzare che i prelievi ingiustificati da conti bancari effettuati da un lavoratore autonomo siano destinati ad un investimento nell’ambito professionale e che questo sia a sua volta produttivo di reddito.
E’ appena il caso di rilevare che la suddetta presunzione (prelievi non documentati=costi in nero / costi in nero=compensi non dichiarati) era già stata denunciata in dottrina tributaria come del tutto incomprensibile ed anacronistica.
In successive sentenze la Cassazione si è spinta oltre pervenendo alla conclusione che la presunzione legale delle indagini bancarie è venuta meno anche in relazione ai versamenti. Ex multis la Cass. n. 23041 del 2015 ha infatti affermato che a seguito della pronuncia della Corte Costituzionale “non è più proponibile l’equiparazione logica tra attività d’impresa e attività professionale, fatta ai fini della presunzione posta dall’art. 32 cosicchè è venuto definitivamente meno la presunzione di imputazione sia dei prelevamenti sia dei versamenti operati sui conti correnti bancari ai ricavi conseguiti nella propria attività professionale dal lavoratore autonomo o dal professionista intellettuale che la citata disposizione poneva e ciò con spostamento dell’onere probatorio a carico dell’Amministrazione Finanziaria.
La sentenza Cass. Sez. V. n. 16697/16 si discosta da questo orientamento perchè con riferimento ai versamenti ritiene ancora operante la presunzione legale posta dalla predetta disposizione a favore dell’Erario che data la fonte legale non necessita dei requisiti di gravità, precisione e concordanza richiesti dall’art 2729 c.c. per le presunzioni semplici superabile da prova contraria fornita dal contribuente, “il quale deve dimostrare che gli elementi desumibili dalla movimentazione bancaria non sono riferibili ad operazioni imponibili, fornendo a tal fine una prova non generica ma analitica con indicazione specifica della riferibilità di ogni versamento, in modo da dimostrare come ciascuna delle operazioni effettuate sia estranea a fatti imponibili”(cfr Cass. n.9721/15- n.13470/15)
Tirando le fila del discorso si può pervenire alla conclusione che non vi sono dubbi sulla illegittimità dell’equazione prelevamento=compenso e conseguentemente l’avviso di accertamento andrà annullato nella parte in cui si riferisce ai prelevamenti di somme.
Per i versamenti non giustificati, invece, la presunzione legale pare alla luce della sentenza citata non venuta meno, registrandosi in ogni caso un contrasto giurisprudenziale che non ha ancora trovato soluzione.